domenica 4 novembre 2012

Mercanti e frati hanno fatto l'Europa. Dal legame fra essere e agire deriva il nesso fra etica e politica (Tarcisio Bertone)

Dal legame fra essere e agire deriva il nesso fra etica e politica

Mercanti e frati hanno fatto l'Europa


di Tarcisio Bertone


Anche nel recente sinodo dei vescovi (7-28 ottobre 2012) sul tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana» si è voluto sottolineare che l'insegnamento della dottrina sociale della Chiesa è parte integrante della nuova evangelizzazione, enucleando, fra l'altro, che l'evangelizzazione non è da considerarsi un problema interno alla Chiesa, ma è un forte contributo allo sviluppo della giustizia e della pace nel mondo. La necessità di una rinnovata proposta dei valori contenuti nella dottrina sociale della Chiesa balza evidente anche sotto l'aspetto economico poiché «la crisi attuale ci fa scoprire come l'avidità e la cupidigia hanno spezzato delle relazioni di senso scindendo l'economia dalla sua dimensione sociale nella vita umana. Queste relazioni possono essere ritrovate solo tramite l'amore, la fraternità e l'amicizia che devono esprimersi in rapporti interpersonali, ma anche nella vita economica e commerciale» (cfr. intervento di monsignor François Lapierre, vescovo di Saint-Hyacinthe, Canada).

Cito un brano dell'enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II sul diritto-dovere della Chiesa di proporre, pur senza imporre, la sua visione del mondo. «Questa, infatti, ha la sua parola da dire di fronte a determinate situazioni umane, individuali e comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano. Ai tempi di Papa Leone XIII (1878-1903) una simile concezione del diritto-dovere della Chiesa era ben lontana dall'essere comunemente ammessa. Prevaleva, infatti, una duplice tendenza: l'una orientata a questo mondo e a questa vita, alla quale la fede doveva rimanere estranea; l'altra rivolta verso una salvezza puramente ultraterrena, che però non illuminava né orientava la presenza sulla terra. L'atteggiamento del Papa nel pubblicare l'enciclica sociale Rerum novarum (1891) conferì alla Chiesa quasi uno “statuto di cittadinanza” nelle mutevoli realtà della vita pubblica, e ciò si sarebbe affermato ancor più in seguito. In effetti, per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società e inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo Salvatore. Essa costituisce, altresì, una fonte di unità e di pace dinanzi ai conflitti che inevitabilmente insorgono nel settore economico-sociale. Diventa in tal modo possibile vivere le nuove situazioni senza avvilire la trascendente dignità della persona umana né in se stessi né negli avversari, ed avviarle a retta soluzione» (n. 5).
Se, come abbiamo spiegato, la radice dell'agire economico è etica e antropologica e, quindi, il centro di ogni proposta capace di futuro deve necessariamente essere la persona umana, occorre prendere in considerazione ciò che costituisce la fonte del suo benessere: il lavoro.
Il lavoro oggi resta troppo sullo sfondo della crisi che attraversa l'intero pianeta, mentre il centro lo occupano finanza e consumo. Il primo fine che dovrebbe ricreare un nuovo progetto comune oggi è la creazione di nuovo lavoro, per una nuova stagione di piena e buona occupazione, perché quando la gente non lavora ogni progetto di bene comune e di sviluppo diventa astratto e insostenibile.
Nei tempi antichi il lavoro era per gli schiavi, l'uomo libero non lavorava: Gesù Cristo invece, prima di annunciare per tre anni il Vangelo, per venti anni ha lavorato come falegname; Paolo di Tarso si manteneva fabbricando tende e scriveva ai cristiani «chi non lavora non mangi», e Benedetto da Norcia scriveva nella regola per i suoi monaci «prega e lavora»; così il lavoro diventava per l'uomo una attività con pari dignità della preghiera e diventava una sua attività fondamentale, costitutiva.
Nella modernità il lavoro nella teoria dell'organizzazione di Frederick Taylor veniva ridotto a puro mezzo di produzione, ma per il cristiano il lavoro umano va ben oltre perché è il corrispondere alla Volontà di Dio su ciascuno: è così un atto di gratuità, un atto d'amore, una liturgia. Nell'ottica della spiritualità cristiana incarnata socialmente, il lavoro umano è impagabile: lo stipendio diventa un premio, un ritorno di gratuità; il lavoro è tale quando è amore, quando serve a creare un prodotto o fornire un servizio per una o più persone, anche se magari non le conosceremo mai, è sempre un'attività svolta “per” gli altri.
Se è vero che il lavoro è fondativo del consorzio umano, allora è necessario edificare una «cultura del lavoro» che aiuti i lavoratori a partecipare in modo pienamente umano alla vita dell'azienda (cfr. Centesimus annus, n. 15); una cultura capace di portare a sintesi le sue varie dimensioni, da quella economica a quella sociale a quella spirituale. Di qui l'invito a pensare in termini di una «ecologia umana», come l'ha descritta Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus annus dove ha affermato che «ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali (...). Non solo la terra è stata data da Dio all'uomo, che deve usarla rispettando l'intenzione originaria di bene; ma l'uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale di cui è stato dotato» (n. 38).
Quanto a dire che occorre spostare il fuoco dell'attenzione dal lavoro come puro processo lavorativo all'opera intesa come possibilità di autorealizzazione. Ecco perché l'estromissione dell'attività lavorativa per lunghi periodi di tempo non rappresenta solo una perdita di produzione (e quindi uno spreco di risorse), ma costituisce un vero e proprio razionamento della libertà personale. Infatti, se è vero che “si impara facendo”, è del pari vero che “si disimpara non facendo”.
Mai come oggi ciò è stato vero, in un'epoca caratterizzata dalla centralità della conoscenza come motore dello sviluppo: nel lavoro, non solo si applicano le capacità già acquisite nel processo formativo. Ma avviene anche una creazione di ulteriori capacità. È per questa ragione che tenere a lungo fuori dell'attività lavorativa una persona significa negarle la sua fecondità e ultimamente la sua identità, una negazione che non potrà mai essere compensata da alcun sussidio di disoccupazione. In ciò sta il senso proprio della nozione, così tanto declamata, di diritto al lavoro. Si tratta non già del diritto al posto (fisso) di lavoro, come taluno vorrebbe interpretare, spesso in maniera improvvida, tale espressione. Ma del diritto alla “fioritura” personale che comporta la responsabilità della società politica civile di predisporre le condizioni per un assetto economico organizzativo tale da consentire a tutti il concreto esercizio di quel diritto.
La perdita del lavoro va ben oltre la perdita dello stipendio, quindi salvare le opportunità di lavoro è prioritario; qui si scopre la funzione non solo economica ma anche sociale dell'impresa, che sia essa grande o media o piccola. Molte esperienze concrete indicano la realizzabilità di una alleanza tra Stato e organizzazioni della società civile per fornire servizi sociali senza affidarli tutti a grandi strutture statali, facendo invece leva sulla propensione dell'essere umano a praticare nel proprio ambito, attorno alla propria famiglia quella cultura della fraternità, della prossimità che è propria della famiglia sana, in cui è più bello fare un regalo a un figlio che tenerlo per sé: mi riferisco al grande mondo del volontariato, quello che affronta i problemi del prossimo non per avere di che vivere, ma con il cuore, per essergli vicino e realizzarsi in questo rapporto. Questa propensione si esprime in modo organizzato nel cosiddetto terzo settore: conosco esperienze di imprese sociali che danno lavoro a centinaia di persone con disagi sociali, disabili mentali o fisici, o ex tossicodipendenti o alcolisti, o carcerati in semilibertà, anche se il lavoro risulta meno produttivo, perché consapevoli del grande valore che per costoro ha la inclusione sociale, il tornare a far parte dignitosamente di una comunità.
La profonda trasformazione che investe il mondo del lavoro in realtà non tocca solo gli aspetti oggettivi, cioè: organizzazione, occupazione o disoccupazione, retribuzione, flessibilità, precarietà e così via, ma coinvolge in modo rilevante i suoi contenuti etico-ideali. Per questo vorrei ritornare a quanto esplicitato in precedenza e accennare alle positive conseguenze del considerare il lavoro non solo come una relazione di scambio ma anzitutto alla luce della “logica del dono” e della gratuità, come ebbe a dire Benedetto XVI nell'enciclica Caritas in veritate: «La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità» (n. 36).
Su questo fondamento si basa l'impegno del Magistero e di tutta la Chiesa per una «civilizzazione dell'economia» in contrapposizione alla forte tendenza speculativa (cfr. Caritas in veritate, n. 38).
Un'economia civile non può trascurare la valenza sociale dell'impresa e la corrispettiva responsabilità nei confronti delle famiglie dei lavoratori, della società e dell'ambiente. I diritti sociali, infatti, sono parte integrante della democrazia sostanziale e l'impegno a rispettarli non può dipendere meramente dall'andamento delle borse e del mercato. Ma questo impegno richiede una forte rettitudine morale.
In quanto europei, dobbiamo sforzarci di riproporre a ogni generazione quella base etica che ha fondato l'Europa come patria dei diritti umani, della dignità e dell'inviolabilità della persona. Se l'Europa non riscopre il legame fra essere e agire e conseguentemente il nesso fra etica e politica, così come il contributo positivo della religione alla sua crescita, verranno a mancare gli strumenti per affrontare gli interrogativi posti dal tempo presente.
Quando nel secondo dopoguerra nacque la prima comunità europea, si crearono le pre-condizioni ideali e spirituali per realizzare una comune terra di pace e di prosperità. Dobbiamo riportare quel grande progetto europeo nel nostro orizzonte. L'Europa l'hanno fatta soprattutto mercanti e monaci, e l'hanno fatta assieme. Le grandi fiere, gli scambi, i trattati commerciali non avrebbero creato durante il medioevo nessuna idea di Europa senza l'azione congiunta, complementare e coessenziale del monachesimo e poi di Francesco e Domenico e degli altri numerosi carismi. Il cristianesimo, che ha anche ereditato, rielaborandola, parte della cultura classica e ebraica, ha offerto quel soffio vitale e quel respiro che ha nutrito l'Europa, la sua economia di mercato, il suo welfare, le sue banche. L'Europa oggi attraversa una crisi non solo per la mancanza di una comune politica fiscale o per i debiti pubblici, ma soprattutto perché si sono affievolite queste tradizioni ideali che hanno alimentato nei secoli il suo spirito. Mai si dimentichi, infatti, che anche l'economia di mercato post-moderna ha bisogno essenzialmente di uno spirito per poter vivere e crescere.
Concludo con una nota di speranza, la stessa che ho espresso in un mio recente discorso in Spagna alla cerimonia di conferimento del Premio internazionale Conde de Barcelona: «Il realismo ci invita a prendere coscienza della crescente complessità delle situazioni sociali e dei loro conflitti. E la profezia ci spinge a non rinunciare a quello che, in un primo momento, potrebbe talvolta essere definito come utopico, ma che, con sguardo attento e speranzoso, può essere visto come possibilità reale. Malgrado le tante esperienze frustranti, dobbiamo credere in una lenta ma irreversibile maturazione etica dell'umanità».

(©L'Osservatore Romano 4 novembre 2012)

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