sabato 20 ottobre 2012

Massimo il Confessore e la metafisica della persona. Articolo di Brian Daley, vincitore del "Premio Ratzinger"

Massimo il Confessore e la metafisica della persona

Sabato 20 ottobre, nella Sala Clementina del Palazzo apostolico in Vaticano, alla presenza dei padri sinodali, che per l'occasione sospenderanno i loro lavori, Benedetto XVI consegnerà i riconoscimenti della seconda edizione del Premio Ratzinger. Pubblichiamo due articoli scritti dai vincitori del premio.


di Brian Daley


L'elemento centrale dell'ampia visione del mondo e del suo futuro di Massimo il Confessore è solitamente considerato essere quello che noi moderni chiamiamo la sua “cristologia”: la sua comprensione della persona del Figlio di Dio Incarnato come la “sintesi” vivente, realizzata personalmente -- per usare il termine preferito di Hans Urs von Balthasar -- delle realtà infinitamente diverse, e tuttavia irriducibilmente collegate tra loro, di Dio e della sua creazione.

Nel suo libro epocale su Massimo, Liturgia cosmica (1968), Balthasar giustamente identifica «il mistero più centrale della concezione del mondo di Massimo» con «un mistero che contiene dentro di sé la soluzione a tutti gli enigmi del mondo: l'unificazione tra Dio e il mondo, l'eterno e il temporale, l'infinito e il finito, nell'ipostasi di un singolo essere, il Dio che si è fatto uomo». Poche pagine più avanti Balthasar cita un famoso passo di Quaestiones ad Thalassium 60 (scritto tra il 630 e il 633 circa) quale sintesi della grande visione della storia della creazione e della salvezza di Massimo: «Ai fini di Cristo, o ai fini del Mistero di Cristo, ogni tempo e ogni essere che esso contiene ha il proprio inizio e la propria fine in Cristo. Tale sintesi, infatti, era già concepita prima di tutti i tempi: la sintesi del limite e dell'illimitato, della misura e dell'incommensurabile, del circoscritto e dell'incircoscritto, del Creatore con la creatura, dell'immobilità nel movimento; quella sintesi che in questi ultimi giorni è diventata visibile in Cristo, portando il disegno di Dio a compimento attraverso se stesso».
Una decina di anni dopo, in diversi luoghi, Massimo iniziò a sostenere che una fede ortodossa in Cristo, fondata nei decreti dei concili ecumenici e delle opere teologiche che ne scaturiscono, doveva riconoscere che il Salvatore, in quanto Dio ed essere umano completo, possiede e usa due volontà naturali: perfettamente armonizzate attraverso il fatto dell'Incarnazione, ma ciascuna funzionante a modo proprio in quanto appartenente a una realtà naturale più grande. Così, in diversi saggi dall'inizio degli anni Quaranta del settimo secolo, e nella famosa Disputatio cum Pyrrho -- trascrizione di una disputa pubblica a Cartagine tra Massimo e il monaco Pirro, deposto patriarca di Costantinopoli, nel luglio 645 -- il Confessore sviluppò in modo esauriente le sue riflessioni sulla metafisica della persona di Cristo. Le sue argomentazioni avrebbero poi influenzato fortemente le Chiese d'Oriente e d'Occidente (al sinodo lateranense del 649 e al terzo concilio di Costantinopoli del 680/681) nel riconoscere formalmente che un serio impegno verso la ormai classica cristologia di Calcedonia esigeva che si ammettesse che le due nature del Figlio di Dio incarnato continuano a essere pienamente operative, in congiunzione sintetica reciproca, negli atti naturali di volontà che fanno parte del funzionamento caratteristico di ogni essere spirituale.
La teologia di Massimo è dunque caratterizzata da una prima prospettiva fortemente cosmica e soteriologica dell'opera di Cristo nella creazione, come anche, più tardi, da un approccio più strettamente ontologico alla realtà di Dio, basato su un'attenta analisi della psicologia dell'esistenza umana, radicata nella filosofia tardo antica, rivelandoci forse un Massimo che fa congetture e, in seguito, un Massimo “scolastico”. Un Massimo che vede Cristo in termini storici più ampi e che ne scruta la persona e l'essere minutamente dall'interno.
Ma che cosa collega questi due approcci? Ciò che vorrei suggerire qui è che a far ritrovare l'orientamento al pensiero di Massimo, e a spingerlo a mettere questi accenti, potrebbe essere stata, durante le dispute degli anni Trenta del settimo secolo, la riscoperta, da parte sua, della cruciale importanza di testi, dibattiti e controversie del secolo precedente: dibattiti che coinvolgevano i difensori e i critici della cristologia calcedoniana, che aveva portato a un'attenta riformulazione, durante il secondo concilio di Costantinopoli (553), di come tale cristologia veniva ufficialmente espressa.
Il contesto di questa riscoperta, verso la metà degli anni Trenta del settimo secolo, della teologia “accademica” del sesto secolo (se così la possiamo definire), furono le critiche che a quanto pare accolsero la conclusione del “patto d'unione” tra il patriarca melkita Ciro d'Alessandria e gli anti-calcedoniani egiziani nel gennaio del 633, un decreto di Ciro nel quale si affermava che le due “nature” originali personalmente unite in Cristo erano tenute insieme da una singola attività o “operazione teandrica”. Questa frase, ripresa dalla fine della cosiddetta Quarta lettera dello Pseudo Dionigi, indirizzata a un certo Gaio, e dibattuta in modo inconcludente dai difensori e dai critici di Calcedonia sin dall'inizio degli anni Venti del settimo secolo, all'inizio sembra essere stata accolta con cauto entusiasmo da Sergio, patriarca di Costantinopoli che, con lo stesso imperatore Eraclio, era sempre alla ricerca di un linguaggio che potesse portare a un ravvicinamento tra i gruppi cristiani dissidenti nell'impero. In una lettera a Onorio, papa di Roma, scritta probabilmente alla fine del 633 o all'inizio del 634, Sergio stesso appoggiava la nozione di “singola attività teandrica” in Cristo, respingendo qualsiasi linguaggio che si potesse riferire a due volontà operanti nelle sue azioni; papa Onorio rispose in modo favorevole, seppure un poco timido, citando testi di san Paolo e la dottrina, allora conosciuta, della “comunione d'idiomi” in Cristo.
C'era però evidente preoccupazione tra alcune persone nella Chiesa d'Oriente. Poco dopo l'annuncio, ad Alessandria, del patto di unione tra calcedoniani e non-calcedoniani, l'anziano e venerabile monaco Sofronio (un siro che aveva trascorso molti anni nel deserto egiziano, si era recato a Roma e poi a Cartagine, dove era stato mentore spirituale di Massimo, ed era tornato ad Alessandria nel 633) rimase inorridito dinanzi alla nozione di una singola attività od operazione in Cristo, vedendo in ciò una nuova forma di apollinarismo. Si rimise subito in cammino per Costantinopoli, al fine di confrontarsi con Sergio e di impedirgli di dare al patto un sostegno ecumenico ufficiale. Le sue proteste ebbero successo: Sergio, che chiaramente prevedeva solo nuovi dissensi sulla scia del patto di Ciro, riunì il proprio sinodo nell'autunno del 633 ed emanò un decreto, o psèphos, con il quale ordinava alle guide della Chiesa semplicemente di evitare del tutto qualsiasi riferimento a “una attività” o “due attività” in Cristo.
A ogni modo, questi eventi di Alessandria e di Costantinopoli sono stati lo sfondo sul quale Massimo, a quanto pare, verso la metà degli anni Trenta del settimo secolo, ha iniziato a mostrare un interesse più profondo per la terminologia dei dibattiti sulla persona di Cristo del sesto secolo, che avevano portato ai canoni del secondo concilio di Costantinopoli. Massimo sembra avere avuto ottime conoscenze ad Alessandria; il suo amico e figlio spirituale Pietro “l'Illustre”, per molti anni il principale generale bizantino nell'Africa settentrionale, a quanto pare nel 633 era stato trasferito in Egitto, dinanzi alla crescente espansione islamica in Siria. Alessandria era caduta in mano agli eserciti dell'impero invasore persiano nel 619, e sembra che tutto il Mediterraneo orientale abbia vissuto per anni una situazione di scompiglio politico e religioso, fino a quando i persiani furono costretti a togliere l'assedio a Costantinopoli nel 626, ritirandosi verso Est. Ora, mentre il governo imperiale riprendeva forza in Egitto, l'imperatore provava ancora una volta a unire le persone dal punto di vista religioso, cercando un qualche compromesso tra calcedoniani e anti-calcedoniani. Un primo passo fu il patto d'unione (già citato) del giugno 633.
Il linguaggio che emerge dalle lettere della metà degli anni Trenta del settimo secolo è formale, quasi liturgico, vicino a quello di Calcedonia, sfumato per quanto riguarda Costantinopoli ii. Viene data importanza ai particolari tecnici delle espressioni e delle frasi, alla precisione delle preposizioni, al significato del numero. Ora usa il linguaggio della controversia teologica accademica, piuttosto che quello contemplativo della cella monastica. Tuttavia direi che, nonostante il cambiamento di tono e di linguaggio -- cambiamento che si avvertirà in modo più intenso nella sua appassionata difesa delle due volontà naturali di Cristo cominciata l'anno seguente -- la visione cristologica di Massimo non ha perso nulla della sua ampiezza cosmica o profondità soteriologica. Semplicemente è giunto alla comprensione che, per poter essere colui che porta il mondo all'unione redentrice e trasformatrice con il suo Creatore, Cristo stesso, quale soggetto unico che agisce, deve poter operare sia come creatore sia come creatura, ovvero deve essere sia due, nell'irriducibile differenza tra l'infinito e il finito, e uno, nell'intervento indivisibile e decisivo del Dio che ha tanto amato il mondo da entrarvi e salvarlo.
Nei dotti paradossi dello scolasticismo calcedoniano, Massimo trovò il materiale per costruire la propria espressione caratteristica definitiva del mistero cristiano.

(©L'Osservatore Romano 20 ottobre 2012)

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