mercoledì 17 ottobre 2012

Il nutrimento della gioia interiore. Nella riscoperta dell'identità del ministero sacerdotale (Celso Morga Iruzubieta)

Nella riscoperta dell'identità del ministero sacerdotale

Il nutrimento della gioia interiore


di Celso Morga Iruzubieta*


Benedetto XVI, nel suo discorso ai partecipanti al convegno promosso dalla Congregazione per il Clero, il 12 marzo 2010, ha ricordato che «l'identità sacerdotale (…) è determinante per l'esercizio del sacerdozio ministeriale nel presente e nel futuro». Queste parole segnalano una delle questioni centrali per la vita della Chiesa circa la comprensione del ministero ordinato, allo stesso modo in cui è questione centrale per la vita della Chiesa comprendere qual è l'identità del cristiano. Nell'attuale clima culturale, conviene ricordare che l'identità del sacerdote, come uomo di Dio e uomo fra gli uomini per le cose che riguardano Dio (cfr. Ebrei, 5, 1), non è qualcosa di superato. È sempre opportuno richiamare quegli elementi dottrinali fondamentali che sono al centro dell'identità del presbitero -- e perciò al centro del suo ministero, della sua vita spirituale e della formazione iniziale e permanente -- perché aiutino ad approfondire il significato dell'essere sacerdote ministeriale per evitare, fra altre cose, concezioni “funzionaliste”. È evidente che tale richiamo e chiarezza andrà in beneficio di tutto il Popolo di Dio.

Nella sua esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, il beato Giovanni Paolo II disegnava così l'identità sacerdotale: «I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo, Capo e Pastore, ne proclamano autorevolmente la Parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza (cfr. Matteo, 10), soprattutto col Battesimo, la Penitenza e l'Eucaristia, ne esercitano l'amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge (cfr. Giovanni, 10), che raccolgono nell'unità e conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito» (n. 15). Tuttavia, l'intera Chiesa è stata resa partecipe dell'unzione sacerdotale di Cristo nello Spirito Santo. Nella Chiesa, infatti, «tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e regale, offrono a Dio ostie spirituali per mezzo di Gesù Cristo e annunziano le grandezze di Chi li ha chiamati per trarli dalle tenebre e accoglierli nella sua luce meravigliosa (cfr. 1 Pietro, 2, 5-9)». In Cristo, tutto il suo Corpo mistico è unito al Padre per mezzo dello Spirito Santo, in vista della salvezza di tutti gli uomini. La Chiesa, però, non può condurre avanti autonomamente tale missione: la sua intera attività necessita intrinsecamente, vitalmente, dell'unione e comunione con Cristo, Capo del suo Corpo. Essa, indissolubilmente unita al suo Signore, da Lui stesso riceve costantemente l'influsso di grazia, di vita e di verità, di guida e sostegno (cfr. Colossesi, 2, 19) perché possa essere per tutti e per ciascuno «il segno e lo strumento dell'intima unione dell'uomo con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1).
Il sacerdozio ministeriale trova la sua ragion d'essere in questa prospettiva dell'unione vitale e operativa della Chiesa con Cristo. In effetti, mediante tale ministero, il Signore continua a esercitare in mezzo al suo popolo quell'attività sacerdotale che soltanto a Lui appartiene in quanto Capo del suo Corpo. Pertanto il sacerdozio ministeriale rende tangibile l'azione propria di Cristo Capo e testimonia che Cristo non si è allontanato dalla sua Chiesa, ma continua a vivificarla con il suo perenne sacerdozio. Per questo motivo, la Chiesa considera il sacerdozio ministeriale di alcuni suoi fedeli un dono essenziale a lei elargito da Cristo.
L'identità del sacerdozio ministeriale condiziona essenzialmente l'idoneità per la sua recezione, attraverso il sacramento dell'Ordine. Bisogna che i fedeli chiamati al ministero siano in grado di essere ripresentazione sacramentale di Cristo Capo e Pastore fra i suoi fratelli. Il concetto canonico d'idoneità è esposto dal canone 1029 (Codex Iuris Canonici): «siano promossi agli ordini soltanto quelli che, per prudente giudizio del vescovo proprio o del superiore maggiore competente, tenuto conto di tutte le circostanze, hanno fede integra, sono mossi da retta intenzione, posseggono la scienza debita, godono buona stima, sono di integri costumi e di provate virtù e sono dotate di quelle altre qualità fisiche e psichiche congruenti con l'ordine che deve essere ricevuto». Sono condizione di natura e di grazia del candidato all'Ordine sacro che la Chiesa esige per legge.
Per sapere cosa s'intende per «fede integra» bisogna considerare il canone 750 del Codex Iuris Canonici (Cic) il quale afferma che hanno fede integra coloro che credono alle cose contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata e che sono proposte come divinamente rivelate dal magistero solenne della Chiesa o dal magistero ordinario e universale; e nel § 2 fa riferimento a quelle verità proposte definitivamente dal magistero della Chiesa che sono «richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede».
La «retta intenzione» rimanda al canone 1051 del Cic, che giudica l'attitudine a esercitare il ministero sacerdotale come retta dottrina, pietà genuina, buoni costumi. Per alcune indicazioni sul modo di preparare le relazioni informative per gli ordini, può poi essere utile consultare Gli scrutini sull'idoneità dei candidati agli ordini della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 10 ottobre 1997.
Il canone 1041 del Cic precisa inoltre che: «sono irregolari a ricevere gli ordini: §1 chi è affetto da qualche forma di pazzia o da altra infermità psichica per la quale, consultati i periti, viene giudicato inabile a svolgere nel modo appropriato il ministero». Non si parla di difetti fisici come irregolarità o impedimenti, anche se il canone 1029 vi fa riferimento. Riguardo a ciò, la diversità di caratteri, le differenze culturali ecc. possono variare molto, essendo la Chiesa cattolica veramente universale, trattandosi di uomini delle più diverse parti del mondo, di culture ed estrazioni sociali molto diverse.
Una cosa importa rilevare: il Signore se i formatori sono attenti e loro stessi centrati sulla propria vocazione, offre segni sufficienti per giudicare, non con sicurezza assoluta che logicamente non esiste in questo ambito, ma con sufficiente certezza morale (“prudente giudizio”) sulla vocazione dei candidati affidati alle loro cure. Bisogna tener presente il principio stabilito, con tutta la tradizione ecclesiale-canonica, dal decreto conciliare Optatam totius n. 2, e cioè che la vocazione al sacerdozio ministeriale non precede la libera scelta del superiore ecclesiastico. Non c'è un diritto all'ordinazione. Per questo anche il canone 1030 del Cic stabilisce una norma sorprendente: il vescovo proprio o il superiore competente possono interdire l'accesso al presbiterato ai diaconi, anche per una causa canonica occulta, salvo ricorso a norma di diritto. Questo principio è un'enorme responsabilità per i formatori e, in ultima istanza, per il vescovo o superiore, ma anche un'esigenza molto forte di sincerità piena da parte dei candidati.
In caso di dubbio, è meglio seguire la via tutior, la via più sicura che, in questo caso, è procrastinare l'ordinazione o non concederla definitivamente, cercando sempre il bene e la felicità autentica del proprio candidato e il bene della Chiesa. La Chiesa cerca, in definitiva, per ordinare come sacerdoti ministeriali, fedeli che siano uomini interamente umani, capaci di cogliere la stupefacente realtà del Dio incarnato per amore.
Un aspetto importantissimo dell'idoneità per il presbiterato nella Chiesa latina è giudicare sulla recezione da parte del candidato del carisma della continenza perpetua e perfetta per il Regno di Dio che fonda la legge del celibato (cfr. can. 277 §1 Cic). Siamo tutti convinti che si tratti di un dono particolare di Dio per aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini. È un atto sommo di carità -- dono totale di sé -- alla stregua del martirio, come affermano alcuni santi padri. La Chiesa è decisa a preservare immutata la disciplina del celibato sacerdotale e ha affermato molte volte in questi ultimi tempi questa decisione, quale bene prezioso per l'intera Chiesa e per il nesso esistente tra celibato sacerdotale ed Eucaristia (cfr. esortazione apostolica Sacramentum caritatis, 24). Nella ripresentazione sacramentale di Cristo, nella trasformazione e configurazione misterico-sacramentale del sacerdote con Cristo s'inserisce il carisma della perpetua e perfetta continenza per il Regno dei cieli che la Chiesa chiede ai suoi ministri. Non è soltanto una legge o disciplina ecclesiastica e per di più tardiva. È piuttosto una forza meravigliosa per un ministero sacerdotale fecondo, e tante figure sacerdotali, anche del nostro tempo, lo dimostrano. Allo stesso tempo, è un tesoro portato “in vasi di argilla” e, quindi, bisogna considerare che la debolezza umana può essere fonte di scandali e di danno molto grave per il Popolo di Dio. Si esige, quindi, un discernimento accurato. Ricordiamo l'episodio biblico di Gedeone, nel quale il Signore fa toccare con mano che non è la forza militare e numerica dei combattenti quella che darà la vittoria, ma il Suo aiuto (cfr. Giudici, 7). La convinzione della bellezza e della somma convenienza del celibato nel sacerdozio ministeriale non impediscono il rendersi conto fino in fondo della sua difficoltà, soprattutto in una cultura come quella odierna, impostata a una libertà senza responsabilità, alla concezione dell'“amore” come uguale a un “sesso senza limiti”. Se si riduce l'esigenza di una vita interiore autentica (la preghiera, la santa messa, l'ufficio divino, la confessione, la direzione spirituale, la devozione a Maria) le conseguenze arrivano in modo quasi infallibile: compensazioni affettive, svuotamento interiore, mancanza di fecondità apostolica, tristezza.

*Arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero


(©L'Osservatore Romano 17 ottobre 2012)

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