sabato 6 ottobre 2012

Anno della Fede e Sinodo. La novità che germoglia nel deserto (Vian)


La novità che germoglia nel deserto

Mezzo secolo è trascorso dall’inizio del concilio Vaticano II — la più grande assemblea di vescovi mai tenuta nella storia — che si aprì l’11 ottobre 1962 e che ha segnato un momento importante nello sviluppo ininterrotto della tradizione cattolica, per sua natura aperta al futuro. Manifesta e generalmente compresa fu allora la volontà di rinnovamento della Chiesa, così come nel cattolicesimo mondiale coerenti con questa volontà sono stati in complesso i decenni da allora trascorsi. Nonostante le contraddizioni, le mancanze e i limiti inevitabili in ogni realtà umana, e nonostante stereotipi tenaci che hanno cercato e cercano continuamente di diffondere visioni contrarie ma non rispettose della realtà.
Per sostenere questo rinnovamento sempre necessario (Ecclesia semper reformanda), Benedetto XVI — che al concilio ha partecipato e ha contribuito come giovane teologo — ha assegnato al Sinodo dei vescovi, espressione concreta e crescente della collegialità episcopale sancita dal Vaticano II, il tema decisivo della nuova evangelizzazione e nello stesso tempo ha voluto un Anno della fede, come a pochi mesi dalla conclusione dei lavori conciliari già aveva fatto Paolo VI, che il Vaticano II aveva guidato e concluso. La necessità di testimoniare e annunciare il Vangelo, il significato della fede per la vita di ogni essere umano: è dunque all’essenziale che il Papa continua a richiamare, e certo con l’intenzione di rivolgersi non soltanto ai fedeli cattolici.
Ci si può chiedere quanto e che cosa di questo richiamo riuscirà ad arrivare alle donne e agli uomini di oggi, in un mondo globale disorientato e che sembra spesso in balia di un flusso senza precedenti di informazioni: non sono forse inevitabilmente destinate a imporsi immagini parziali e notizie distorte? Certo, molta responsabilità è di chi questo messaggio trasmette: «Bisogna sapere essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?» s’interrogava già nel 1950 Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI.
Ma vi sono anche sordità, insensibilità, volontà pervicaci di non capire, nonostante lo sforzo evidente di quell’«aggiornamento» intuito e incarnato da Giovanni XXIII e continuato dai suoi successori, che altro poi non è se non desiderio di fedeltà al Vangelo e alle mutevoli necessità del suo annuncio. Così lo sguardo mediatico preferisce soffermarsi sulle ombre e sulle infedeltà — che certo non mancano ma sono affrontate con coraggio, e mai come in questo pontificato — ma senza quasi accorgersi di quella novità intravista nel deserto dal profeta Isaia (43, 19) e che «proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?».
  
g.m.v.


(©L'Osservatore Romano 7 ottobre 2012) 

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