giovedì 5 luglio 2012

La biografia di Albino Luciani in un libro di Marco Roncalli. Affascinato dalla semplicità (Perticci)


IN LIBRERIA "GIOVANNI PAOLO I. ALBINO LUCIANI" DI MARCO RONCALLI



La biografia di Albino Luciani in un libro di Marco Roncalli


Affascinato dalla semplicità


Una ricerca vasta e puntuale sulla Chiesa italiana di metà Novecento



Nell'estate del 1976, durante le consuete vacanze a Pietralba, il cardinale Albino Luciani si imbattè in un piccolo racconto di Anatole France, Le jongleur de Notre-Dame: ne trasse lo spunto per l'omelia dell'Assunta e, nel dicembre di quell'anno, volle tradurlo e commentarlo sul «Messaggero di Sant'Antonio». Ne è protagonista Barnaba di Compiègne, un giocoliere devotissimo alla Vergine che andava di città in città facendo atti di gran destrezza. In una sera gelida di pioggia incontra un frate, e conversando con lui decide di lasciare la sua vita vagabonda, per cantare, da monaco, le lodi alla Vergine. Arrivato in convento, notò che i frati facevano a gara nell'onorare la Madonna, e si trovò subito a disagio per la sua ignoranza. Gliene derivò una tristezza profonda: «Sono ben sfortunato Signora mia -- confessava alla Vergine -- di non avere per servirti né sermoni edificanti, né fini pitture, né versi torniti ed eleganti. Non ho niente purtroppo».
Ma un mattino si alzò tutto contento, corse nella cappella e vi restò per più di un'ora ritornandovi dopo pranzo. Da allora ci andava tutti i giorni e non era più triste. «Perché tutte queste soste di Barnaba nella cappella?», incominciavano a domandarsi i frati. Così il priore decise di andare a vedere che cosa facesse, e attraverso le fessure della porta scorse Barnaba che, davanti all'altare della Madonna, testa in giù, faceva i suoi giochi di prestigio con le sei palle di rame e i dodici coltelli che era solito usare nelle piazze.
Lo credette impazzito e, gridando al sacrilegio, si preparava a tirarlo fuori a forza dalla cappella, quando vide la Madonna discendere i gradini dell'altare, avvicinarsi a Barnaba e asciugare, con un lembo del manto, il sudore che cadeva dalla fronte del suo giocoliere. Il buon priore si prostrò allora per terra e mormorò: «Beati i semplici perché vedranno Dio».
Credo che nel suo intimo il patriarca di Venezia si sentisse talora vicino a Barnaba: «Io non ho né la sapientia cordis di Papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di Papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa», avrebbe confessato nel suo primo Angelus da Papa, quello del 27 agosto 1978. Di lì a pochi giorni dedicava la sua prima udienza all'umiltà (le altre tre riguarderanno le virtù teologali), in coerenza col motto humilitas (lo stesso di san Carlo Borromeo), che vent'anni prima aveva voluto sul cartiglio del suo stemma episcopale.
Dunque umiltà e, al tempo stesso, strenuo senso dei doveri che la sua posizione gli imponeva. La non sempre facile dialettica fra questi due momenti rimane una delle cifre della sua vita, quale viene ora minutamente ripercorsa da Marco Roncalli in una ricerca vastissima (Giovanni Paolo I. Albino Luciani, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012, pagine 734, euro 34), che non solo ne ricostruisce la biografia, ma svolge un'indagine puntuale sulla Chiesa italiana di metà Novecento, sulla sua esperienza del concilio Vaticano II, sui difficilissimi (per la Chiesa e per l'Italia) anni Settanta. Il volume può dividersi in quattro parti che corrispondono, grosso modo, alle tappe del ministero di Luciani.
La prima, dalla nascita nel 1912 al 1958, si svolge tutta all'interno della diocesi di Belluno e Feltre, nel cui clero diventa sacerdote il 7 luglio 1935: inizierà presto l'insegnamento nel seminario bellunese (il Gregoriano), divenendone vicerettore e assumendo progressivamente la carica di pro vicario e poi di vicario generale della diocesi. Alla fine del 1958, Giovanni XXIII lo nomina vescovo di Vittorio Veneto, dove rimarrà fino alla fine del 1969: gli anni esaltanti del concilio, del viaggio missionario in Africa, ma anche dell'alluvione del 1966, che colpirà la sua gente, e dell'inizio della contestazione ecclesiale. Nominato patriarca di Venezia dopo la morte improvvisa del cardinale Giovanni Urbani, prende possesso della nuova diocesi l'8 febbraio 1970: otto anni per molti versi difficili e dolorosi, che lo portano al breve conclave dell'agosto 1978 e all'elezione a Pontefice. Infine pagine molto intense e storicamente ineccepibili sono dedicate al brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I e alla sua morte improvvisa e solitaria.
Roncalli guarda con distacco al mondo ecclesiastico italiano del preconcilio: ne sottolinea qua e là la separatezza, le rigidità gerarchiche, le timidezze, le compromissioni politiche. Così dalle sue pagine emerge un Luciani che non è particolarmente antifascista, non si distingue nella lotta partigiana, è sempre “obbediente” nei difficili anni del dopoguerra. Messa a confronto con altri ecclesiastici degli stessi decenni, al biografo la sua esperienza appare più limitata: Roncalli guarda piuttosto al vescovo di Belluno, Girolamo Bortignon, «che fu tra i presuli più coraggiosi nel contrastare i nazisti»; a don Clemente Riva, che prese le difese della filosofia rosminiana, criticata invece da Luciani nella sua tesi alla Gregoriana pubblicata nel 1950; a don Primo Mazzolari, che il prete veneto incontra a Vicenza a fine agosto 1949.
Eppure quel mondo forma uomini che poi sapranno affrontare (come Roncalli dimostra benissimo) le sfide del Vaticano II, farsi convertire dal concilio e al tempo stesso coniugarlo con la difesa della tradizione cattolica che avevano appresa nei loro seminari.
Secondo la testimonianza di Vittore Branca, Paolo VI lo giudicava «uno dei teologi più lucidi» che conoscesse, ma la cultura di Luciani non fu solo teologica. Lettore inesauribile, aveva alle spalle il Renouveau catholiqueeuropeo dei primi decenni del Novecento, che batteva alle porte anche del Gregoriano di Belluno: quindi poesia, letteratura, filosofia, perfino cinema e arte. Fra gli “illustrissimi” a cui inizia a scrivere lettere aperte dal maggio 1971, compaiono Péguy e Chesterton.
Il 24 settembre 1978, dedica buona parte di quello che sarà il suo ultimo Angelus a Georges Bernanos, di cui allora ricorreva il trentesimo anniversario della morte, e ai suoi Dialoghi delle Carmelitane. Ricorda le parole dell'ultima che sale al patibolo, suor Teresa di Sant'Agostino: «L'amore sarà sempre vittorioso, l'amore può tutto». Commenta: «Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l'amore può tutto».
Luciani è anche un prolifico giornalista e pubblicista: fin da giovane scrive per bollettini parrocchiali e diocesani e per periodici di ogni tipo. Da patriarca inizierà una regolare collaborazione al «Gazzettino» di Venezia, non sempre giudicata benevolmente dai suoi fratelli nell'episcopato. Ma scrive anche per i suoi preti, come quando a Vittorio Veneto, nel 1967, pubblica un Piccolo Sillabo, un nuovo elenco degli errori contemporanei in materia di fede: non per istillare «la passione dell'eresiologo, che cerca l'errore per poi scagliare l'anatema del crociato. Un sillabo, che, mettendovi in faccia all'errore, vi innamori della verità».
Il tutto in uno stile inconfondibile, che è un'altra delle cifre più interessanti della sua personalità: un sermo humilis, come l'ha definito Carlo Ossola, che rientra pienamente nella più antica tradizione cristiana. Come ai tempi dei Padri della Chiesa, i pagani colti si facevano beffe del cattivo greco e del basso realismo dei libri cristiani, così molti intellettuali più o meno d'avanguardia di quarant'anni fa riservarono pesanti ironie allo stile piano e al tono divulgativo degli scritti e dei discorsi di Luciani, che cercavano di insegnare ai semplici le profondità della vita.
Da parte sua si trattava di una scelta istintiva, frutto -- si potrebbe dire -- di una radicale opzione anti-intellettualistica e anti-avanguardistica: oggi (scriveva ancora nel 1976) la gente ha sete di autentica semplicità, ed era a costoro che si rivolgeva, nella convinzione che tale “semplicità” costituisse una condizione necessaria per incontrare Dio.
Infine nelle esperienze del dopoguerra il prete veneto maturò un anticomunismo di fondo che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Per molti (in certe pagine, sembra, anche per Roncalli), l'anticomunismo cattolico di metà Novecento è oggi motivo di imbarazzo: provocò certamente eccessi polemici, rallentando la comprensione di determinate realtà sociali e creando inevitabili contaminazioni partitiche e politiche di lunga durata; come anche, negli anni della guerra fredda, rese difficile la necessaria distinzione fra “errore” ed “errante”. Ma posizioni come quella di Luciani si basavano su d'una percezione della realtà tutt'altro che infondata: che il comunismo e il marxismo costituissero una sfida epocale per la Chiesa e la cultura cattolica, alla quale si trattava di offrire una risposta adeguata e un'alternativa.
Se in alcune circostanze (specialmente negli anni Sessanta, quand'ormai le contrapposizioni del dopoguerra sembravano superate), il persistente anticomunismo ne poté appannare l'azione pastorale, nel decennio successivo lo rese invece sensibile a mutamenti culturali che pochi in Italia furono capaci di percepire con pari immediatezza.
Il 20 dicembre 1973 usciva a Parigi il primo volume di Arcipelago Gulag di Solženicyn, un testo che avrebbe provocato decisivi spostamenti nella cultura d'Oltralpe, ma non in Italia, dove si preferì a lungo ignorarlo o boicottarlo. Luciani lo tiene presente già nell'omelia del 31 dicembre 1973 e poi lo cita nella lettera postelettorale ai preti veneziani del 18 giugno 1975 (le elezioni amministrative di tre giorni prima avevano registrato una grande vittoria del Pci, anche a Venezia): «Ci è mancato l'amore della libertà. E prima ancora di questo, la coscienza della reale situazione». Due anni dopo, Luciani fornì un aiuto decisivo alla Biennale del dissenso che si aprì a Venezia il 15 novembre 1977: organizzata da una serie di intellettuali di area socialista e ostacolata in tutti i modi dal Pci, quella Biennale fu una delle prime “vetrine” in Occidente di quel nuovo dissenso che avrebbe sgretolato nel decennio successivo il mondo comunista.
Ma il centro ideale del volume di Roncalli è certamente il concilio Vaticano II e l'esperienza che ne fece il vescovo Luciani. Pur non prendendo mai la parola in aula, visse intensamente tutta la vicenda conciliare: l'incontro con vescovi di ogni parte del mondo, di lingue e culture molteplici, e il confronto con culture teologiche ed ecclesiologiche diverse produsse una grandiosa efficacia sulla sua personalità. «Io sono un convertito del concilio», era solito ripetere ai più diretti collaboratori.
Eppure fin dall'inizio fu restio a concepire il concilio all'insegna della discontinuità e della rottura con la precedente vita della Chiesa. La biografia di Luciani è, si potrebbe dire, la prova vivente di quella che è stata definita l'«ermeneutica della riforma», che da lui venne continuamente riaffermata nell'ultimo decennio della sua vita, soprattutto negli anni veneziani.
I capitoli che Roncalli dedica loro sono fra i più interessanti del volume: con una trattazione estremamente analitica, si ripercorre anno dopo anno l'attività del patriarca fino all'agosto 1978, offrendo un ricchissimo materiale sulle discussioni, le tensioni, le fratture che attraversarono allora la Chiesa veneziana e, più in generale, quella italiana.
Come accennato, quelli veneziani furono per Luciani anni tutt'altro che facili, specie nei rapporti col clero della città e con alcuni ambienti intellettuali. Roncalli si pone ripetutamente una domanda: dopo gli entusiasmi del concilio, Luciani conosce negli anni del post concilio (diciamo dal 1969), un ripiegamento, un'involuzione? Diventa -- come si disse -- un «duro conservatore»? E a ragione conclude che non è Luciani che muta, ma il contesto.
Il patriarca di Venezia aveva da subito maturato un'idea del Vaticano II che restò immutata negli anni, mentre era per settori importanti di clero e di laici (italiani e non) che il concilio stava diventando qualcosa d'altro. Su questo mutamento, bisogna intendersi: si tratta di una serie di trasformazioni più generali, che producono i loro effetti anche nel mondo cattolico (che non può essere avvertito come un corpo separato rispetto al resto della società). Cosa cambia? Lo sfondo culturale del primo lustro degli anni Sessanta è permeato da un atteggiamento che potremmo definire (cum grano salis) “riformista”: si avvertono le trasformazioni sociali e culturali che sono maturate nel dopoguerra e soprattutto nel nuovo clima della distensione internazionale e della decolonizzazione e si cerca di dare loro una risposta adeguata, che le assecondi e, al tempo stesso, le guidi.
La seconda metà del decennio (per ragioni che qui non è possibile ripercorrere) conosce invece una radicalizzazione ideologica, che dà vita a una nuova cultura e (potrebbe dirsi) a una nuova antropologia. Il cosiddetto Sessantotto non può essere letto, infatti, solo in termini puramente politici, ma come luogo di maturazione di un nuovo “pensiero socializzato”, le cui propaggini arrivano fino ai nostri giorni.
Quali ne sono gli ingredienti fondamentali? L'emergere di quello che Paolo VI chiamerà il «tormentoso mito della rivoluzione», con il conseguente disprezzo per ogni gradualismo riformatore, che «scaturisca da un'energia non sovversiva» (9 agosto 1972); il rifiuto di ogni mediazione istituzionale e gerarchica, in nome dell'assemblearismo e della democrazia diretta; l'accettazione (talora l'esaltazione) della violenza, giudicata una risposta inevitabile alla violenza diffusa del “sistema”; la critica delle istituzioni (Stato, famiglia, Chiesa, partiti) in nome di una soggettività che non deve subire alcuna limitazione e che mira solo all'autorealizzazione; da qui una rivalutazione degli elementi istintuali della personalità, in primo luogo della sessualità in tutte le sue forme.
Tutti questi temi penetrano largamente anche in un contesto specifico come il mondo cattolico, ovviamente acquistandovi valenze e accenti specifici. Li ritroviamo, variamente modulati, nella “contestazione cattolica” e permeano non esigue fasce di clero e di laicato per buona parte degli anni Settanta. Per tali ambienti il concilio Vaticano II non ha prodotto un insieme di documenti da studiare e da assimilare in vista di una riforma complessiva della Chiesa e della sua presenza nel mondo e neanche costituisce un evento epocale che sprigioni un impulso di rinnovamento al di là dei suoi stessi primi risultati. Ma diventa un “mito” che impone una sorta di “rivoluzione permanente”, che piuttosto che fissarsi in nuove strutture e istituzioni, genera un continuo bisogno di “auto superamento”.
Contro questa ermeneutica del concilio la polemica di Luciani è continua fin dagli ultimi anni di Vittorio Veneto e poi per tutto il periodo veneziano e Roncalli la segue con grande puntualità, anno dopo anno. Il biografo non può fare a meno di sottolineare la diffusa politicizzazione, i sociologismi e l'evidente adozione di temi e stilemi della allora pervasiva cultura marxista, il tono tranchant di molti documenti della contestazione, che spesso prese di mira proprio il patriarca. E non se la sente di ascrivere a “conservatorismo” la risposta di Luciani, che conobbe certo anche durezze insospettate: come nel caso dello scioglimento della comunità di San Trovaso a poche settimane dal referendum sul divorzio del 12 maggio 1974. Semmai ripetutamente ne assimila la posizione a quella di Paolo VI, rivolgendosi al quale -- nel concistoro del 5 marzo 1973 in cui fu il primo dei nominati -- lodò la sua volontà «di realizzare e lo spirito e i decreti del concilio Vaticano II, certo con prudenza, quanto alla forma, ma con decisione ed efficacia, non certo pavide, quanto alla sostanza». «Impresa, questa, davvero ardua, -- aggiunse significativamente -- se è vero quanto si va dicendo qua e là, che oggi il concilio ha molti seguaci, e così ne ha il Vaticano III, pochi invece il Vaticano II».


(©L'Osservatore Romano 5 luglio 2012)

1 commento:

laura ha detto...

Mi auguro che la causa di beatificazione arrivi presto a buon fine Papa Luciani ha dato una volta alla Chiesa in 33 giorni. Senza di Lui, non ci sarebbe stato tutto il resto