martedì 12 giugno 2012

La devastante faida di Trapani tra il vescovo defenestrato Micciché e l’economo ribelle don Treppiedi nel commento di Giacomo Galeazzi


Riceviamo e con gratitudine pubblichiamo:


Gli strani affari del don “Ha fatto sparire un milione di euro”


L’economo nel mirino dei magistrati


GIACOMO GALEAZZI


INVIATO A TRAPANI


All’apparenza è un intrigo di potere locale, in realtà è uno scontro nel cuore del potere vaticano. Con tanto di maggiorenti Cei e cardinali di Curia schierati per l’una o parte o l’altra parte. Nella devastante faida di Trapani tra il vescovo defenestrato Micciché e l’economo ribelle don Treppiedi entrano in campo fazioni ecclesiastiche e santi in paradiso. 
Nel decreto in cui si stabilisce la “sospensione dal sacro ministero”, il 20 febbraio, la Congregazione per il clero ritiene provata la responsabilità di don Antonino Treppiedi per il “mancato rendiconto” di gestione con “particolare riferimento a due assegni bancari di 97mila e 50mila euro”. Per la Santa Sede “l’ostinata contumacia del reo” e la “speciale gravità della violazione”esige “l’urgente necessità di riparare lo scandalo dei fedeli”.
Ma don Treppiedi non accetta la sanzione e così è lo stesso ministro del Clero, cardinale Mauro Piacenza a scrivere il 31 maggio al sostituto di Micciché, l’arcivescovo Plotti, per ribadirgli che “la censura della sospensione al sacerdote è immediatamente esecutiva ed efficace”. Malgrado ciò l’avvocato di don Treppiedi sostiene ancora che il provvedimento è congelato da un ricorso. Intanto le carte vaticane e quelle dei magistrati di Trapani descrivono un vortice infernale di rogiti, mutui, operazioni finanziarie. Più che una diocesi quella di Trapani sembra un’agenzia immobiliare a doppio fondo. "Noi fedeli speriamo solo che torni la quiete dopo la tempesta, ci sono già tanti problemi qui e i preti dovrebbero risolverli non creali di ulteriori", taglia corto davanti alla statua di Garibaldi, Milena Accardi. A giudicare dalle "munizioni" in campo non c'è da essere ottimisti.
Una sequela di vendite, passaggi di mano, trasferimenti, come la cessione a prezzi stracciati della canonica della parrocchia del Rosario. Secondo la procura, Micciché era sempre all’oscuro di tutto, persino che don Treppiedi aveva svenduto la canonica a un suo fedelissimo. Tutto alle spalle del vescovo. Anche il convento di Alcamo affidato dalle suore al sacerdote. L'inchiesta della procura, che aveva prima innescato il 7 giugno 2011 l'invio del «visitatore apostolico» Mogavero e a metà maggio la rimozione del vescovo Micciché, riguarda ufficialmente un ammanco di denaro nella fase di incorporazione da parte della fondazione «Auxilium» di un'altra fondazione gestita dalla Curia, la «Campanile». Sullo sfondo come nella tradizione dei “pupari” siciliani si muovo, però, ingombranti padrini. Micciché deve molto della sua carriera al discusso arcivescovo Cassisa, sotto la cui guida la diocesi di Monreale divenne epicentro di veleni e bufere di mafia. Treppiedi da parte sua ha parentele e amicizie influenti tra porporati e politici. In Sicilia come a Roma è guerra di nervi e di calunnie. Malaffare, scandali sessuali, nepotismi, sodalizi con “uomini d’onore”. Ogni arma è buona pur di danneggiarsi. Qui la Chiesa conta ancora tanto: nelle urne, nei cda delle banche, tra la gente che affolla il porto e i paesi barocchi. Non è un caso che per “pacificare” quest’angolo indocile della Sicilia la Santa Sede abbia speso l’influenza della Cei delegando l’ex vicepresidente (Plotti) e l’ex sottosegretario (Mogavero).
Malgrado ciò la guerra è tutt’altro che terminata. In primo piano e sotto traccia si combattono poteri più o meno occulti e si regolano partite che poco hanno a che fare con la Chiesa. Micciché ha pronte le valigie per ritirarsi a Monreale. Prima però ha preteso il timbro del cancelliere della diocesi sul passaggio delle consegne. Ha voluto che fosse certificato che lascia la cattedra con un bilancio economico in attivo. Da qui in avanti la “ditta” non è più affar suo.Se qualcuno ha gestito i conti delle parrocchie come se fossero conti personali sarà la magistratura ad appurarlo. Di certo la trentina di beni immobili dati in pasto per quattro soldi agli “amici” tra Calatafimi e Alcamo non torneranno nella disponibilità della Curia. Autorizzazioni a vendere contraffatte, versamenti degli assegni “sviati”, inusuali modalità di pagamento vengono riassunte dai magistrati nella definizione di “polpetta avvelenata” servita personalmente dal sacerdote al proprio vescovo. Domani in procura i magistrati avranno modo di sentire dall’economo ribelle le ragioni di ciò che mesi di perquisizioni e indagine ritraggono come un gigantesco assalto alla diligenza. Poi toccherà alla Santa Sede rispondere alla rogatoria per chiarire chi siano i veri titolari dei conti trapanesi allo Ior.


© Copyright La Stampa, 12 giugno 2012

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