martedì 22 maggio 2012

Fede, solidarietà e lavoro per un nuovo modello di società. Prolusione del card. Bagnasco (O.R.)


Prolusione del presidente della Conferenza episcopale italiana all'assemblea generale


Fede, solidarietà e lavoro per un nuovo modello di società


Pubblichiamo ampi stralci della prolusione pronunciata dal cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana in apertura dei lavori dell'assemblea generale che si tiene a Roma fino a venerdì.


di Angelo Bagnasco


Innanzi a tutto il nostro pensiero va a quella parte del Nord Italia maggiormente interessata al sisma che è avvenuto quasi all'alba di ieri, domenica. Siamo vicinissimi a quelle comunità. Ci stringiamo ad esse, preghiamo per i morti e i feriti, siamo solidali ai loro parenti, e ci impegniamo a fare per intero la nostra parte affinché la vita normale possa riprendere al più presto. Ma anche la condizione complessiva del nostro popolo ci angustia, non da oggi per la verità. Si coglie in giro una pensosità preoccupata che valutiamo non solo legittima, ma sacrosanta; essa tuttavia non deve farsi cupezza o oppressione paralizzante, perché questo sarebbe un cedimento sul fronte dell'amore che Dio ha per noi, che ci fa resistenti alla prova e capaci di futuro. Si scorgono segnali di un pronunciato risentimento, ostilità dichiarata e violenza sanguinaria, che dobbiamo respingere e combattere con ogni determinazione, affinché non ci chiudano gli spiragli a quel futuro che è diritto di ogni comunità.
Non pensiamo affatto che il Paese abbisogni di ricette minimali né precipitose. Mai come oggi i cittadini sono consapevoli che si è definitivamente interrotto un ciclo economico e sociale, e che il nuovo sarà comunque diverso. La crisi è deflagrata nella forma più grave di crisi di sistema, qualcuno parla addirittura di crisi di civiltà. Ma poiché non amiamo le parole roboanti, vorremmo essere cauti, registrando anzitutto la realtà. Infatti, per una serie di stagioni, ci siamo sforzati di credere che, come altre volte, la ripresa fosse a portata di mano, che tutto sarebbe stato in qualche modo superato. Ma così non è. Ad una crisi epocale si deve rispondere con un cambiamento altrettanto epocale, di mente anzitutto, che invece è la più lenta a lasciarsi modificare. Forse è vero che ancora non c'è ovunque la percezione di quanto grave sia la situazione attuale. Il mito della crescita progressiva e inarrestabile è entrato definitivamente in crisi: il debito accumulato stava divorando già le risorse destinate ai figli e troppe popolazioni nel mondo restavano escluse dai processi di sviluppo, senza essere disposte ad un'interminabile subordinazione. Il sistema della comunicazione globale intanto faceva il suo corso, stimolando confronti e accentuando le competizioni. Si doveva cambiare. Si deve cambiare. Di qui l'iniziativa governativa di messa in salvo del Paese, in grado di scongiurare il peggio. Se parlare di declino spaventa, e forse non è neppure giusto, bisogna almeno dire che è necessaria una generale ricalibratura dell'idea del vivere personale e collettivo, riconoscendo che, ieri, qualcosa di importante ci era sfuggito o era stato sottovalutato. E poiché gli Stati solitamente non falliscono, sappiano però che oggi nel mondo possono scattare nuove forme di servitù imposte dai vincoli internazionali, in primo luogo dalla mano lunga e cinica della finanza speculativa. Episodi nuovi di comunicazione selvaggia si sono ancora una volta manifestati nel sistema mediatico nazionale, con ripercussioni amare anche fuori dai nostri confini. Come se il Paese non avesse abbastanza preoccupazioni, altre ce ne procuriamo di totalmente gratuite. Di più: si cerca di costruire colpi di scena con l'arma impropria di un'informazione “rubata” a sedi istituzionali altissime, che hanno status internazionale. Non possiamo con fermezza non ricordare che la deontologia giornalistica non è qualcosa che si può usare a proprio piacere secondo circostanze e interessi: essa ha regole, doveri e limiti precisi. Non esiste un dovere deontologico che vada contro i diritti fondamentali della persona e delle comunità, tra cui il diritto alla libertà e a quella riservatezza che rientra nello statuto proprio dell'uomo e nelle fondamenta della civiltà. Ci addolora, e molto, che affiori qua e là una sorta di gusto a colpire la Chiesa, quasi che ne potesse venire un qualche vantaggio: vero è il contrario, sono atti criminosi che appesantiscono tutti e certo non procurano gloria né onore ai protagonisti, noti o ignoti che siano.
Ma come vescovi abbiamo qualcosa di ulteriore e di specifico da dire? Certo che l'abbiamo, e siamo qui riuniti per indicarlo insieme, assegnando al nostro gesto -- se possibile -- una forza ancora maggiore. Dobbiamo andare oltre, e puntare ad un palpito collettivo, motivato e fermo di reazione, di critica, di progetto. In una parola: a un risveglio della speranza. C'è un urgente bisogno che si torni a parlare e a vivere di speranza, una speranza «affidabile», direbbe il Papa, perché poggia sulla fede intesa come fiducia nella fedeltà di Dio che, in Gesù, si è legato al destino dell'uomo. Il futuro dell'evangelizzazione si apre solo per la fede. Benedetto XVI sta in effetti dispiegando una sorta di pacifica “offensiva” a tale riguardo: l'indizione dell'Anno della Fede, il prossimo Sinodo mondiale in tema di evangelizzazione e l'appena costituito Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, costituiscono una scossa molto importante, che è impossibile ignorare. Anzi, confidiamo decisamente nella sensibilità e capacità reattiva delle nostre diocesi e delle nostre parrocchie. Il riferimento è qui a coloro che, iniziati da piccoli alla fede, hanno ad un certo punto -- da adolescenti o in età giovanile -- interrotto la frequenza religiosa e raffreddato il loro rapporto con Dio.
È la parrocchia il “grembo” adatto per accogliere queste persone? Tutto lascia sperare che lo sia, che in essa si trovi quanto è necessario per la riscoperta della vita spirituale. La parrocchia, dunque, oltre ai movimenti, come via alla Chiesa. È il momento che associazioni e movimenti, riscoprendo ciascuno la propria valenza iniziatica, si innestino in una pastorale integrata, che sia di compagnia alle solitudini di oggi e rilanci in concreto la missione sul territorio. Si parla oggi di una crisi che avrebbe colpito la missione ad extra: forse il modo concreto per rispondervi, è rilanciarla anzitutto ad intra. Tanto più che fratelli africani, asiatici, latino-americani sono tra noi. Chi ci impedisce di concepire e promuovere in maniera alta, plastica, vivace la vita pastorale delle parrocchie? Forse la scarsità di sacerdoti? La rinnovata vivacità delle parrocchie è grembo di vocazioni sacerdotali, così come le aggregazioni ecclesiali. Ma ricordiamo: la vitalità non è la forza organizzativa, è piuttosto calore di fede, intensità di preghiera, amore fraterno. 
C'è tuttavia una seconda via cui vogliamo accennare, comprensiva della precedente, ed è quella suggerita dal 50° anniversario dell'Apertura del concilio Vaticano II, evento che si è posto in dialogo con l'uomo di oggi. La discreta distanza che ormai ci separa da quell'evento conciliare -- e anche dallo spirito, genuino ma apocrifo, del '68 -- ci può consentire una serena valutazione di ciò che ha rappresentato nelle nostre Chiese. Quanta vita di fede espressa fino ad allora dal popolo di Dio è stata messa come tra parentesi anziché essere ripensata con strumenti idonei, rielaborata, rimotivata, rilanciata? E quanto dell'antica, solida fede del popolo cristiano, siamo così riusciti a traslitterare nel nuovo linguaggio ispirato al Concilio? Naturalmente non c'è ombra polemica in queste domande (cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Dottrina della Fede, 27 gennaio 2012). È straordinario, letteralmente straordinario, ciò che si è fatto per rinnovare la catechesi in Italia. Ciò nonostante, persiste un pronunciato analfabetismo catechistico (cfr. Benedetto XVI, Incontro con i Parroci di Roma, 23 febbraio 2012). Certo, le persone apprendono e dimenticano. Ma è su quel secondo verbo che si dovrà operare per dare risposte adeguate, in un tempo nel quale più che in altri è chiesto di dar ragione della nostra fede (cfr. Prima lettera di Pietro 3,15). 
Sull'Europa vorremmo dire una parola. Non c'è dubbio infatti che vi sia oggi una crisi dell'uomo europeo, ieri autorizzato ad immaginare un certo esito del processo comunitario e oggi costretto a fare i conti con un soggetto poco riconoscibile. Si sono moltiplicate le analisi sulla stagione dell'euro e sulle contingenze della sua nascita. Lasciamo ai competenti elaborare le risposte più plausibili. A noi preme rilevare un certo senso di delusione che oggi circonda l'Europa, ma anche l'illusione, forse, di poter annegare o confondere le debolezze nazionali in una realtà più grande. Cresciuti alla scuola di Giovanni Paolo II, l'Europa per noi è un bene troppo grande perché resti un'incompiuta sospesa nell'aria, o un progetto abortito per il quale il problema di ciascun membro sia trovare il modo più indolore per uscirne. Proprio le inattese difficoltà di cui stiamo facendo esperienza, ci parlano della necessità dell'Europa e dei rischi che corriamo se si tornasse indietro. Ha ragione chi osserva che non ci può essere comunità europea senza solidarietà e senza cooperazione, poiché la sola competizione non basta, esaspera le tensioni e logora i vincoli comunitari, lasciando i cittadini esausti e scettici. Anche la moneta unica potrebbe paradossalmente diventare un volano di vera integrazione, se la si ricomprendesse come un bene comune che non misura solo la potenza degli Stati aderenti, ma alimenta le condizioni di vita degli europei. 
Nel nostro Paese perdura la fase delicata che si era aperta nello scorso autunno, e che dovrà portarci non solo fuori dalle secche ma, create le condizioni, avviarci finalmente verso la ripresa di un processo di crescita che abbiamo già detto − non potrà essere quella che immaginavamo in precedenza. Una concezione individualistica della vita -- dove domina il benessere individuale, dell'io anziché del noi -- ha portato al ripiegamento su se stessi, alla ricerca del massimo risultato, in tempi minimi e in qualunque situazione: politica, finanza, economia, salute, affetti… Quasi che vivere intensamente significasse spremere la vita in funzione di sé. Non ha, questa lezione, solo una valenza etica, ma è anche conveniente come peraltro è conveniente al soggetto e alla collettività tutto ciò che è veramente morale. Infatti, un crescente benessere individuale, isolato dagli altri, porta a non radicarsi in nulla -- famiglia, comunità, territorio -- perché i legami sono avvertiti come costrizione anziché come condizione di libertà e di vita solida. Quando la forbice tra ricchezza e povertà si allarga, la società è a rischio non solo sul piano della coesione ma anche dell'economia. Se senza i consumi il sistema globale va in crisi, per consumare -- seppure nella giusta misura -- bisogna che tutti abbiano i mezzi. È necessario, dunque, rompere il cerchio mortale dell'individualismo, che corrompe il tessuto sociale; ed è urgente ricostruire la “cultura dei legami” che si esprime nella famiglia, nel vicinato, nell'amicizia, nei luoghi del lavoro, nel percepire la società come parte di noi, così come ognuno, in una certa misura, è parte della società. 
Dobbiamo riportarci al livello delle nostre reali possibilità, smettendola di far ricorso allo strumento debitorio. Per questo erano necessarie le riforme già impostate, ed è importante che queste siano ora completate con il massimo dell'equità e del consenso possibile. Stupisce l'incertezza dei partiti che, dopo una fase di intelligente comprensione delle difficoltà in cui versava il Paese, ma anche delle loro dirette responsabilità, paiono a momenti volersi come ritrarre. Non ci sarebbe di peggio che lasciare incompiuta un'azione costata realmente molti sacrifici agli italiani. Per questo non ci può essere ora alcun processo involutivo: bisogna operare alacremente affinché i sacrifici affrontati possano ritornare il prima possibile a beneficio in particolare dei più deboli, dei disoccupati, degli inoccupati. E si possa dispiegare quella strategia pubblica di superamento della povertà, delle pesanti disuguaglianze e della vulnerabilità, che -- accanto alla fittissima rete ecclesiale di solidarietà -- possa rispondere a bisogni vecchi e nuovi. I recenti risultati elettorali, poi, non possono incentivare involuzioni del quadro della responsabilità politica, né demagogie e furbizie, grossolane o sottili che siano. Riconoscendo le persone oneste e perbene che -- indubbiamente -- ci sono e operano con impegno nel quadrante politico, non si può tacere però di quanti, lasciandosi andare a pratiche corruttive, a ragione vengono oggi ritenuti alla stregua di “traditori della politica”. Il latrocinio, in questo caso, riveste una duplice gravità: in sé e per il furto di ideali che esso rappresenta. La politica è, invece, arte nobile e necessaria per servire la giustizia di un Paese, mentre ogni corruzione -- in qualunque ambiente si consumi -- è un tradimento del bene comune. Vorremmo davvero che i partiti, strumenti indispensabili alla gestione della polis, profittassero di questa stagione per produrre mutamenti strutturali, visibili e rapidi, nel loro costume politico e nella stessa offerta politica. È la gente che aspetta di vedere dei segni concreti, immediati ed efficaci. Il cittadino, infatti, vuole ricuperare nonostante tutto la piena fiducia nella politica e nei partiti. Le astensioni dalle urne, le schede bianche, le schede nulle sono un messaggio chiaro da prendere sul serio. Ma perché lo scoramento e la disaffezione non prevalgano, occorre che la politica si rigeneri nel segno della sobrietà e della capacità di visione. Nessuno si illuda che il Paese tolleri facilmente di ritornare alla condizione quo ante. Si deve piuttosto scommettere sull'intelligenza dei cittadini, ormai disincantati e stanchi. 
Non è più l'ora di ricambi di facciata o di mediocri tatticismi spacciati per visioni politiche. Di pari passo al lavoro sulla dimensione etica, urgono le iniziative che portino crescita e assorbano disagio sociale. C'è bisogno di lavoro, lavoro, lavoro. I giovani in particolare devono finalmente ricevere dei segnali concreti, che vadano oltre la precarietà, la discriminazione, l'arbitrarietà. Le misure necessarie per le nuove generazioni e i diritti che esse vedono oggi riconosciuti, devono effettivamente compensarsi anche attraverso una scrupolosa revisione delle garanzie, che non possono valere solo per determinate fasce. L'uguaglianza è condizione della fraternità. Con i diritti ci sono i doveri: in primis quello di meritarsi il lavoro e la sua stabilità. E c'è un costume insano che sta prendendo piede, persino in certe campagne pubblicitarie, secondo il quale si è spinti a spendere per i propri consumi ciò che ancora non si è guadagnato. Indebitarsi per fare una vacanza, o per avere in casa un oggetto superfluo, è segno di un modo di concepire la vita distorto, triste e pericoloso. Il dramma dei suicidi di persone che si sentono schiacciate dalle responsabilità aziendali o familiari, spesso da debiti per i quali non hanno colpa, è un fenomeno che interroga e inquieta. Difficile sottrarsi anche alla percezione che vi possa essere un involontario, perverso effetto emulativo. Nel rispetto assoluto di ogni situazione, noi abbiamo il dovere di ricordare che nulla vale il sacrificio della vita: essa è sacra, nessuno ne può disporre a piacere e neppure a dispiacere. Vanno appurate con diligenza le cause concrete di questi fenomeni, e vanno approntati “sportelli amici” a cui possa rivolgersi con fiducia chi è disperato. Com'è noto, su questo fronte la Chiesa italiana e le varie Diocesi da tempo sono mobilitate in modo operativo e concreto per creare -- più fitta e resistente -- una rete di protezione della vita di tutti e di ciascuno. In nome di Dio, tuttavia, chiediamo a tutti di fermarsi prima di arrivare al passo irreparabile. Proprio la perentorietà con cui spesso si presentano le situazioni di crisi, richiede a tutti gli enti e sportelli preposti di adottare criteri di ragionevole flessibilità. Stato, Amministrazioni ed Enti pubblici paghino senza ulteriori indugi i debiti contratti con i cittadini e le aziende. Sappiamo bene che gli istituti bancari giudicano ad oggi già pericoloso il livello della loro esposizione creditizia: ma noi non possiamo non far appello al senso civico e al dovere della solidarietà nei confronti delle piccole aziende e delle famiglie. Con grande rispetto, invitiamo la classe imprenditoriale a ripensare alla facile strategia delle delocalizzazioni. Inoltre, l'approccio prevalentemente finanziario ad alcuni problemi del mondo industriale forse ripiana dei vuoti, ma rischia di spogliare il Paese del proprio patrimonio. 
Vorrei aggiungere una parola nei riguardi dei sacerdoti che al Sud, ma ora anche al Nord, si trovano a far fronte al sistema mafioso, alle sue minacce e alle sue intimidazioni. Noi vescovi siamo, senza incertezze né titubanze, schierati con loro, e ancora una volta vogliamo assicurare che la Chiesa mai diserterà il proprio impegno contro la malavita: non è successo nella precedente stagione, non capiterà ora. Altre minacce ci stanno insidiando e su di esse si sta puntando un'assidua vigilanza, insieme alla massima attenzione per prevenire e perseguire gli autori e i fiancheggiatori di violenza. A Brindisi c'è stato un attentato mortale in cui ha perso la vita una giovane, Melissa Bassi, e sono state ferite altre cinque allieve, tutte che stavano entrando a scuola per apprendere e prepararsi alla vita. Nella mia Genova, com'è pure noto, c'è stata la gambizzazione di un alto dirigente aziendale, Roberto Adinolfi. Lasciando agli inquirenti le conclusioni di competenza, è inevitabile fare collegamenti col passato e intravvedere ombre eversive che cercano di pescare nel torbido di disagi e paure per destabilizzare la vita sociale. Nessun credito da parte di alcuno può essere dato a coloro che, comunque travestiti, usano violenza e perpetrano crimini. L'Italia ha un'indole di equilibrio e misura, sembra corrispondere alla bellezza e all'armonia della nostra terra. Non tende di per sé ad eccessi né ad estremismi. L'intera Nazione deve isolare, con sdegno compatto e univoco, coloro che sbandierano false e mortifere utopie. Non permettiamo che questi servi della violenza ci intimidiscano e ci assoggettino al terrore.
Siamo partiti domandandoci come si presenterà prevedibilmente la crescita a cui fortemente aspiriamo. E si diceva che essa non si svilupperà tanto sulla quantità (di beni, di risorse, di consumi…), quanto sulla sicurezza, la qualità delle relazioni, l'istruzione dei nostri giovani e la riqualificazione degli adulti, la tutela dell'ambiente, la valorizzazione sistematica dei beni artistici, l'organizzazione del tempo, compreso il rispetto della domenica. Molti di questi temi saranno oggetto di considerazione nell'Incontro mondiale delle famiglie a Milano, in calendario per il 30 maggio-3 giugno, con la presenza del Santo Padre. Per questo evento esprimiamo i nostri voti all'Arcivescovo di quella città, Cardinale Angelo Scola, assicurandogli la nostra vicinanza e la partecipazione festosa delle nostre comunità. Esser distratti rispetto al bene insuperabile della famiglia fa soffrire anche la società, che indebolisce il suo più rilevante cespite di vitalità, di coesione e di futuro. Per questo, in una cultura del tutto-provvisorio, l'introduzione di istituti che per natura loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta contribuiscono a diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell'amore, né alla società stessa. Ecco perché l'ipotesi del cosiddetto “divorzio breve” contraddice gravemente qualunque possibilità di recupero, e rende complessivamente più fragili i legami sociali. 
Il legislatore ha in più occasioni dimostrato di tenere in alta considerazione l'equilibrio e il benessere dei figli, come quando, col divieto dell'eterologa, ha detto no al bambino con “tre genitori”. L'esperienza dimostra con sempre maggior evidenza che i figli non si accontentano dei dati di fatto, e sono esistenzialmente inquieti fino a quando non identificano i loro veri genitori. Abbiamo così richiamato l'attenzione a quell'insieme di valori fondamentali e fondativi che costituiscono la cosiddetta “etica della vita”, e che si pone alla base di ogni sistema sociale che voglia garantire l'uomo in tutto l'arco della propria esistenza.

(©L'Osservatore Romano 21-22 maggio 2012)

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